“La pratica medica e un'arte, non un commercio; una vocazione, non un affare; una vocazione in cui il tuo cuore sarà esercitato quanto il tuo cervello. Spesso la parte migliore del tuo lavoro non avrà nulla a che vedere con pozioni e polveri, ma con l'esercizio di un'influenza del forte sul debole, del giusto sul malvagio, del saggio sullo stolto”, ha affermato William Osler, medico canadese vissuto alla metà dell'800, nonché padre della Medicina moderna (in Zangrillo, Ri-animazione. Tecnica e Sentimento, Editrice San Raffaele, 2010).
Spesso si pensa, a torto, che la guarigione o l’annullamento dei sintomi di sofferenza organica equivalgano alla risoluzione di un problema. Ma siamo convinti che la vera cura di una persona è quando ci si fa carico del suo essere sia corpo che psiche. Prendersi cura è cosa diversa dal curare, infatti. E per avviare un processo di aiuto verso una persona che ha un qualche problema occorre innanzitutto partire da una semplicissima parola, lontana da qualsiasi strategia o specifica scuola di pensiero: “osservazione”. Imparare ad osservare, ma sarebbe più opportuno dire avere l’attitudine all’osservazione ci permette da un lato di convogliare la nostra attenzione verso il canale visivo, risparmiando le energie da spendere per il parlato e costruendo un nostro personale vissuto su chi ci sta di fronte.
Mettiamoci sempre in discussione, evitando di partire già dall’impressione avuta, ma costruendo e disfacendo il costrutto realizzato inizialmente. Una persona che parla tanto è sempre differente da una persona che parla poco, per esempio. Abituarci a fungere da specchio (gli studiosi della PNL – Programmazione Neuro Linguistica lo chiamano ‘rapport’) costituisce requisito utile per unire, tassello dopo tassello, aspetti del carattere della persona che abbiamo di fronte. Il vero elemento empatico, tra due persone, è quello che permette a chi ha bisogno del nostro aiuto di sentirsi “com-preso”, ricordando le basi della comunicazione umana che descrivono quella vera e corretta solo se basata su ritmi ordinati ascolto/parlato, sul guardarsi negli occhi, sullo stabilire un contatto basato sull’accoglienza delle altrui difficoltà.
L'empatia, nata con Carl Rogers, fondatore dell' “Approccio Centrato sulla Persona” fa sentire le due persone sintonizzate su canali che permettono sempre una reciprocità e modulazione di ciò che si trasferisce. Non solo. Il ‘bravo empatico’ è colui che sente l’altrui disagio, lo condivide e, rispettando i tempi, ne permette un approccio offrendo prospettive alternative, cosciente del fatto che sarà sempre chi soffre a risolvere un problema, per evitarne una ricaduta.
A questo punto è interessante prevedere un futuro fatto di continuo scambio e relazione tra le professioni: un medico non può prescindere dalle emozioni che non sono solo del paziente, ma anche le sue stesse perché toccano inevitabilmente compartimenti del proprio vivere che non sempre hanno porte ben serrate o stagne. Psiche e soma, psicologi e medici non potranno mai prevedere un percorso su binari divergenti perché alla fine la divergenza destrutturerebbe l’identità stessa di un paziente che nel professionista cerca rifugio, riparo, soluzioni attraverso il semplice meccanismo dell’ascolto.
Spesso si parla del fatto che “il medico pietoso fa la piaga cancrenosa o purulenta” fraintendendo l’esser decisi e fermi nelle proprie posizioni professionali con l’evitare il coinvolgimento emotivo come se si stesse parlando di un automa o di un robot. Questo coinvolgimento emotivo (che in psicoanalisi si definisce ‘controtransfert’ – terapeuta versus paziente) esiste a prescindere dal contesto specialistico in cui si interviene ed annullarlo significa automaticamente annullare il coinvolgimento emotivo del paziente (in psicoanalisi, transfert), commettendo un errore primariamente umano e, secondariamente ma non per importanza, etico. Aprirsi, dialogare, sperimentare, conoscere, confrontarsi tra professioni elimina il buio accecante e realizza una crescita interiore che il malato avverte, facendo divenire propria la speranza di guarigione.
Il bravo ‘gestore della sofferenza’ quindi:
- Non è tanto un buon oratore, quanto un buon ascoltatore
- Coglie i messaggi non verbali
- E’ capace di un ascolto attivo
- Sa decodificare i messaggi di feedback (ritorno) del paziente
In conclusione, potremo affermare che un paziente soddisfatto sarà meglio di un semplice paziente guarito.
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